Francesco Salviati, Le tre Parche. Le Parche sono l'equivalente delle Moire per Romani. |
destinato a morte imminente, di continuare a vivere scambiando la propria vita con quella di lui; il centauro Chirone, afflitto da una ferita incurabile, pur di sottrarsi a un destino di sofferenze senza fine, scambia la propria immortalità con Prometeo; Polluce, il gemello immortale di Castore, alla morte di quest’ultimo, non volendo permettere che il fratello –mortale- scendesse per sempre nell’Ade, ottiene da Zeus di cedere a Castore parte della sua immortalità: alternandosi e scambiandosi le rispettive sorti, trascorrono per l’eternità un giorno sull’Olimpo e uno nell’Ade.
Questo è possibile perché presso i Greci -diversamente dai
Romani per i quali il destino era Fatum,
ciò che è pronunciato
irrevocabilmente dalla divinità - il destino era legato all’idea del distribuire, del fare le parti: alla nascita ciascun uomo riceve una “porzione” di
vita che determina non solo il modo in cui la sua vita si svolgerà, ma anche
come e quando finirà. Qualunque sia il nome che si voglia dare al destino
individuale, Moira, Aisa o Daimon, l’idea di fondo è
sempre la stessa, quella del destino-porzione,
necessariamente limitato, assegnato dalla divinità ai mortali.
Scambiare la propria parte,
come nei miti di cui si è detto in precedenza, non è cosa frequente e avviene
solo per concessione della divinità.
Moira e il suo equivalente maschile Moros hanno la comune radice mer- ,“parte” (la stessa di meiromai, “distribuire”, “ricevere la propria parte”) che definisce tanto una porzione di
terreno quanto di sorte.
Al plurale è anche il nome delle divinità che assegnano a
ciascuno la propria parte di sorte.
Esiodo, nella Teogonia, presenta le Moire dapprima come figlie della Notte:
vs 219-222
Notte generò le Moîrai e le Keres, che infliggono le pene:/ Klōthṓ, Láchesis e Átropos, che ai mortali/ assegnano sin dalla nascita il bene e il male,/ ed
infliggono le pene agli uomini e agli dèi.
Poi, quasi a togliere ogni dubbio sulla legittimità
dell’ordine imposto alla vita degli uomini, le dice figlie di Themis, la dea della norma, e di Zeus:
vv.
901-906
Per seconda poi, sposò la splendida
Themis, che fu madre delle Ore, Eunomia, Dike e Eirene fiorente, che vegliano
sull’opera degli uomini mortali, e delle
Moire, a cui grandissimo onore diede Zeus prudente, Klotho, Lachesi e Atropo, le
quali concedono agli uomini mortali di avere il bene e il male.
Ma per quanto giusto -in quanto stabilito gli dei-, morire
è pur sempre doloroso: così la Moira spesso diventa “funesta”, come nei poemi
d’Omero: “La morte crudele neppure gli dei/ possono allontanarla da un uomo,
anche amato, nel giorno/che Moira funesta di morte lungo strazio lo colga” (Od. III, 236-238)
Klotho, Lachesi, Atropo: se i nomi di Lachesi, la “distributrice” (dal verbo lanchano), colei che
assegna all’uomo la sua “parte”, e di Atropo, “l’inflessibile” (dal verbo a-trepo), alludono al
ruolo principale delle Moire che è quello di assegnare le sorti e al carattere
irrevocabile di queste assegnazioni, il nome di Klotho rimanda al campo
metaforico utilizzato per esprimere l’attribuzione del destino individuale: la
filatura. Come le donne -che dalla lana grezza ottenevano il filo lavorando con la conocchia e il fuso- così le
Moire filano e tagliano il filo della vita umana, decretandone la fine: Klotho lavora
al fuso
rotante dal quale viene dipanato il filo, Lachesi lo regge e Atropo lo taglia con
le cesoie.
L’idea della ripartizione è anche in aisa, l’altro termine con cui si indicava il destino; quel che cambia è il
campo metaforico di riferimento: aisa infatti, in Omero anche aise, designa la
parte di preda assegnata ai guerrieri dal bottino di guerra, oltre che la parte
di vita ricevuta in sorte.
Aisa è sinonimo di moira: “Non
è aisa per lui morire qui, lontano dai suoi, ma è moira per
lui che riveda gli amici e torni all’alto palazzo e alla terra dei padri” (Odissea,
V, 113 sgg).
Come moira, anche aisa può designare
una divinità del destino.
Il terzo modo di indicare il destino è daimon, un termine importante nell’ambito
della filosofia e della spiritualità e -da Socrate a Platone a James Hillman-
di grande fortuna.
Daimon designa una
"potenza divina", ed è connesso a daiomai,
"dividere, fare le parti", principalmente nel banchetto. La medesima
radice accomuna anche il verbo dainumi
"offrire un banchetto", e il
sostantivo dais ,
il "banchetto" in cui ciascuno
riceve la sua parte di vivande.
Sembra quasi che
il daimon sia
una sorta di servitore che "divide" in porzioni le vivande per i
convitati, simile al daitròs, una
figura tipica nel banchetto eroico: a Itaca, nella reggia di Odisseo, è il daitròs che offre ai Pretendenti
"piatti di carne scelta, d’ogni sorta, e coppe d’oro pose loro davanti …”(Odissea, I, 141).
Insomma, in questo nuovo
campo metaforico, il "destino" si direbbe immaginato come una
divinità che fa le "parti" tra coloro che partecipano al banchetto
della vita.
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