Mercurio e Giove nella casa di Filemone e Bauci di Jacob van Oost (1603-71) Fine Arts Museum di San Francisco |
Come sanno “i venticinque lettori” del mio blog, all’Altro nel mondo antico ho dedicato più di un post (La costruzione dell’Altro nel mondo antico, corposo resoconto di un bel seminario organizzato dall’Associazione Antropologia e Mondo Antico, a Napoli, nel settembre scorso; L’Altro e le sue declinazioni parte I e II, fra i post di febbraio). Ora, ispirata particolarmente dalla lettura di un libro bello e denso di Umberto Curi, Straniero, intendo trattare – in due post distinti - l’ospitalità e il dono.
Lo xenos è lo straniero non identificabile col nemico bensì con l’ospite, sia in senso attivo (colui che
ospita), sia in senso passivo (colui che è ospitato), come è evidente
nell’Alcesti di Euripide, in cui xenos
individua sia il padrone di casa Admeto, sia Eracle giunto come ospite. Questa
tragedia consente inoltre di cogliere –proprio nei passi relativi
all’accoglienza di Eracle da parte di Admeto[1]
- la reciprocità della relazione d’ospitalità: pur basandosi su leggi non
scritte, ne è richiesta la scrupolosa osservanza da entrambe le parti. Per
questo Admeto – nonostante sia a lutto
per la perdita di Alcesti- sente doveroso prendersi cura dell’ospite
garantendogli agi e tranquillità, e ad
Eracle, che da parte sua dichiara di sentirsi inopportuno in una casa in cui si
è appena verificato un lutto, Admeto ribatte che sarebbe “un male aggiunto ad
altro male” se l’ospite si rivolgesse
altrove.
Prendersi cura
dell’ospite, ricambiarne le attenzioni, è un dovere sacro; non a caso
lo straniero, come il supplice, è posto sotto la protezione di Zeus Xenios e
Athena Xenia.
Chi si presenta come
“straniero” e’ anche necessariamente “ospite”, non per una scelta
facoltativa di chi lo accoglie, per la quale possa preferire di trattarlo come
ospite anziché come straniero, ma perché lo straniero obbliga all’ospitalità. E l’ospitalità non coincide con l’assimilazione: lo xenos è sacro proprio nella sua
identità e individualità, altra e irriducibile rispetto a quella di chi lo
ospita.
La convinzione della
sacralità dell’ospite e la riprovazione verso chi si sottrae alla legge
dell’accoglienza sono molto diffuse nel mondo greco e testimoniate anche in
Eschilo[2],
in Platone e in Aristotele[3].
Nell’Odissea, a dimostrazione
della rozza disumanità dei Ciclopi, è sufficiente far vantare Polifemo di non
tenere in alcun conto gli dei e le leggi dell’ospitalità[4].
Anche altrove, nei poemi
omerici, è ben presente il motivo dell’ospitalità: la stessa guerra di Troia ha
origine in una violazione della relazione d’ospitalità da parte di Paride che, non
onorando l’accoglienza di Menelao, gli
rapisce la moglie.
Ed è ancora nell’Iliade
che si trova l’episodio più significativo del valore dell’ospitalità: Glauco e Diomede,
nemici sul campo, quando si riconoscono ”ospiti antichi”, interrompono il
combattimento e si scambiano doni. E che
questi non siano equivalenti (armi d’oro per armi di bronzo, nove buoi per
cento buoi) passa in secondo piano rispetto al fatto che vengano ribaditi,
attraverso lo scambio di doni, i vincoli di solidarietà fra casate
aristocratiche che – come questo
episodio dimostra- potevano condurre
anche a tregue personali fra nobili[5].
Nell’ Odissea il motivo
dell’ospitalità fa da contraltare alle peripezie di Ulisse: la giovane Nausicaa
esorta le ancelle, spaventate dall’apparizione improvvisa del naufrago Ulisse,
a non fuggire e a soccorrere lo straniero. Anche se non sa ancora chi è, la
principessa dispone che sia lavato, rifocillato, fornito di vesti. Sulla stessa
lunghezza d’onda è Alcinoo che, dopo il canto di Demodoco e il pianto d’Ulisse,
si comporta con rispetto e sensibilità verso lo straniero, pur ignorandone
ancora l’identità, perché “l’ospite, il
supplice, è come un fratello”[6].
La sacralità dell’ospite è
a prescindere dalla sua identità e dai meriti: prima lo si accoglie e solo
successivamente si indaga sull’identità e le motivazioni del suo viaggio.
Agli antipodi dei Feaci,
della loro ospitalità che è attestazione di civiltà, senso umano e devozione
religiosa, si pone il comportamento offensivo e violento di Antinoo nei
confronti di Ulisse nei panni di un mendicante[7].
Il dovere dell’ospitalità
come dovere religioso è imposto soprattutto dal timore che sotto le spoglie
dello straniero si celi un dio, intenzionato a valutare i comportamenti degli
uomini, a giudicare -dalla loro condotta verso lo straniero- se siano giusti o
ingiusti, con conseguente distribuzione di premi e punizioni. Significativo è a
questo proposito l’episodio di Filemone e Bauci, ripreso da Ovidio nelle
Metamorfosi. Filemone, vecchio e povero contadino della Frigia, con la moglie
Bauci, a cui lo lega un tenero affetto, ospita nella sua povera capanna Zeus ed
Ermes, in vesti di mendicanti. I due anziani li accolgono così ospitalmente che
sono disposti a sacrificare per loro l’unica oca che possiedono, mentre tutti
gli altri abitanti del luogo li avevano scacciati. Allora per punizione tutte
le case del paese sono distrutte; solo la capanna di Filemone e Bauci resta
intatta e si trasforma in un tempio. Agli dei i due coniugi chiedono solo di
morire insieme. Il loro desiderio viene esaudito e vengono mutati in alberi:
tiglio e quercia[8].
Il fatto che la violazione
dei doveri imposti dall’ospitalità coincida con l’oltraggio alla divinità,
promuove la legge dell’ospitalità dal piano umano a quello divino, perché
contiene in sé il rapporto con la divinità, come riecheggia un celebre passo
evangelico: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha
mandato” [9].
L’ostilità verso lo
straniero e l’assenza di devozione religiosa sono sovrapponibili, mancanze che
si possono accomunare in un’unica colpa. E questo non solo per la sacralità
dell’ospite, ma anche perché lo straniero e il dio condividono il medesimo
carattere di “duplicità“: come l’uno è l’estraneo potenzialmente nemico, ma anche ospite (condizioni in rapporto dinamico fra di loro, suscettibili
di ribaltamenti, non necessariamente destinate ad evolvere stabilmente l’una
nell’altra), così il dio ha una natura duale, se non molteplice. E questo vale
non solo per Dioniso, dio del “doppio” per antonomasia, ma per tutti gli dei,
di cui è nota al natura proteiforme, in grado di trasformarsi in una molteplicità di forme e sembianze
diverse.
La duplicità investe anche l’elemento rituale tipico della
relazione d’ospitalità: il dono. (continua)
[1]
Euripide, Alcesti, 538 sgg
[2] Eschilo,
Supplici; Eumenidi
[3] Platone,
Leggi V; Aristotele,
Etica Nicomachea XI
[4] Omero, Odissea IX, 269-76
[5] Omero Iliade
VI, 119-236
[6] Od. VI, 206-210; VIII, 536 sgg.
[7] Od. XVII, 374-491
[8]Ovidio,
Metamorfosi
VIII, 616-724
[9] Mt. 10,
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