La costruzione dell'Altro nel mondo antico

Sabato 30 settembre 2017, nell'Aula Magna del prestigioso  Liceo Classico Jacopo Sannazaro di Napoli, ho preso parte a un seminario per docenti di discipline umanistiche sul tema: Limiti, confini, frontiere. La “costruzione dell'altro” nel mondo antico. L'incontro,  è stato organizzato dal Centro A.M.A dell'Università di Siena e la Casa editrice Palumbo, con il sostegno del MIUR.
Il seminario ha voluto  soprattutto riflettere sull'ambivalenza della figura dello straniero nel mondo classico e nel mondo contemporaneo.
Lo “straniero” è infatti inestricabilmente  dono e minaccia, minaccia per la sua diversità, dono perché  ci costringe a prendere consapevolezza della nostra identità;  in quanto vicinanza e nel contempo lontananza, simile ma al tempo stesso altro, suscita curiosità e stupore, ma anche diffidenza. Ma sempre dall’ Altro, da come costruiamo l'Altro, dipende la definizione della nostra identità.

Dopo i saluti di benvenuto da parte della Vicepreside del Sannazaro, la gentilissima professoressa Luppino, gli studenti del Laboratorio teatrale del Sannazaro, seguiti dai professori Montanino e Senatore, hanno rappresentato un segmento della tragedia Le Supplici di Eschilo, regalando ai presenti  un momento di intensa suggestione. 

"Le Supplici" degli studenti del Sannazaro

Alle relazioni del professor Bettini “Chi sono i barbari? I Greci, i Romani e noi” , e del professor Lentano “Il gigante sciocco: etnografia selvaggia dei Romani”,  è seguita la densa relazione dal contenuto giuridico della dott.ssa  De Tullio, cui ha contribuito anche il dott. de Crescenzo, sul tema “Verso una tutela politico-costituzionale del barbaro”.

Dopo le relazioni, i laboratori: per me i Laboratori Didattici dei seminari A.M.A. sono sempre  il momento più bello: altri tipi di  aggiornamento, consistenti nel puro ascolto di relazioni di accademici di varia levatura -spesso poco attenti all'efficacia comunicativa-, prive di qualsiasi ricaduta didattica, hanno fatto decisamente il loro tempo. Nel laboratorio invece può capitare di entrarci senza idee precise e scoprire invece di averne tante a partire da un “non  sono d'accordo” o un “è proprio vero!” che ti risuona dentro dopo l'intervento di un collega: e da lì considerazioni, osservazioni, ricordi, letture, che il confronto con gli altri rafforza, confuta, riallinea o illumina di una luce nuova … il tutto nei tempi ristretti della riunione. E ne esci sempre ricca  di spunti e progetti a cui dar vita nel lavoro in classe.
Il laboratorio che ho scelto è “La nascita della frontiera tra confine geografico e diversità culturale in età tardoantica” tenuto dal prof. De Rienzo, per la creazione di un modulo di II anno, Latino/Storia le discipline interessate. Partendo da testi di autori anche poco noti  (e non presenti in internet!) si sono strutturati percorsi diversi, in cui mettere in evidenza il carattere permeabile della frontiera, con Barbari ansiosi di varcare il confine e di sistemarsi nell’esercito e nelle città dell’impero e romani che, invece, accettano di andare a vivere fra i Barbari pur di sfuggire al disagio e alle ingiustizie del mondo a cui appartengono; oppure, al contrario, il confine è limite netto dato dall’appartenenza a un credo religioso, o linea che separa la cultura cittadina dal nomadismo, che è come dire la civiltà dalla barbarie.
Dopo la condivisione tra i partecipanti del lavoro svolto nei diversi laboratori, le considerazioni finali del professor Spina, muovendosi fra i versi di Kavafis e Gaber e la nuova barbarie della tecnologia (quella che rende i giovanissimi in grado di spedire 50 sms al minuto  ma in forte difficoltà nella  comprensione  di linguaggi complessi e che  si teme faccia tabula rasa  della cultura, della civiltà e del concetto di umano così come da secoli li concepiamo) hanno aperto ulteriori, stimolanti piste di ricerca.
E sulle note di Strangers in the night  –i professori relatori sono anche valenti musicisti-  l’incontro di Napoli si è concluso.
Alla prossima.


(Si riportano di seguito le sintesi, con adattamenti, delle relazioni dei professori Bettini  e Lentano)
Maurizio Bettini “Chi sono i barbari? I Greci, i Romani e noi” (Sintesi con adattamenti)
In passato, e per lungo tempo, la cultura classica è stata sinonimo della cultura tout court.
Oggi non ha più senso considerarla paradigma culturale, quanto piuttosto una cultura, splendida e importante, che può illuminarci sul nostro presente. Se, come diceva De Tocqueville, “le cose non si vedono neppure in piena luce se non le si pone una accanto all’altra”, può risultare molto utile mettere a confronto i punti di vista degli antichi e dei contemporanei su un tema civile di grande spessore, come il rapporto con l’alterità, per la quale l’antichità ha coniato la parola barbaro.

Barbaro è parola onomatopeica (cfr. il latino Balbus): indica tutti coloro che, non conoscendo il greco, non lo sanno parlare e dunque bar bar  balbettano. Il termine era già in Omero, ma fu solo dopo le Guerre persiane che i Greci individuarono i Barbari per antonomasia nei Persiani, non cittadini ma sudditi di uno solo e dunque schiavi, l’esatto contrario degli Ellenes, i Greci. Per Euripide è naturale che gli Ellenes comandino sui Barbari; in  Aristotele barbaro è sinonimo di schiavo.
C’è anche un caso di animali sensibili a questa differenza Greco/Barbaro: Plinio e Eliano riferiscono  degli uccelli di Diomede, collegati al mito dell’eroe, che vivono nella più grande delle isole Tremiti, i quali se sbarcano i Barbari li scacciano, se arrivavano i Greci li festeggiano.
Dopo la vittoria greca sui Persiani barbaro diventa sinonimo di rozzo, brutale, spietato, mentre fra gli aggettivi che si oppongono a barbaro, figurano: asteios, “quello di città”, il tipo urbano, eloquente e dai comportamenti socialmente adeguati; philanthropos, che non va inteso come “colui che ama l’uomo” (il concetto di amore per l’uomo è cristiano), quanto piuttosto colui che con l’uomo stabilisce un rapporto privilegiato; praos, emeros, portatori dell’idea di civiltà come mansuetudine; pepaideumenos, educato, dotato di paideia: dunque, se la paideia è cultura e civiltà,  il barbaro è ignorante, incolto, incivile. Il che sarebbe bello se fosse vero, ma la Storia ci insegna il contrario: i Nazisti, per esempio, che pure amavano la cultura in tutte le sue manifestazioni,  scesero tutti i gradini della più brutale inciviltà.
Si può definire “universale culturale” la tendenza a categorizzare la propria cultura come propriamente umana e a chiamare se stessi “uomini”, riservando alle culture esterne alla propria caratteri non umani, nel senso di sub umani. Così ai barbari sono stati attribuiti costumi che non hanno alcuna caratteristica umana: cannibalismo, matricidio, incesto, l’uso di fare scempio dei corpi degli uccisi, il vivere senza società, resi schiavi dal potere di uno solo.
Ai Galli in particolare le fonti antiche  rimproverano la vanteria, la tendenza a vantarsi;  ma questa aveva un senso perché nella cultura celtica il vantarsi era un modo di affermare il proprio prestigio; avendo l’uso di scambiarsi doni sempre più importanti, se non si arrivava a ricambiare adeguatamente la generosità nei doni, si rischiava la sconfitta sociale.
Dall’antropologia culturale sappiamo che molte popolazioni designavano se stessi come uomini e gli Altri come non uomini:  Levy Strauss riferisce di popolazioni chiamati “pescecani”, “scimmie in terra”, “pidocchi”. . . Di questo vi è traccia anche nel mondo antico: il popolo dei Mirmidoni deriva il suo nome  forse da myrmex , formica, o i Peucezi dai pediculi, pidocchi, …. Insomma è frequente il non riconoscere agli Altri caratteristiche umane che invece si tende ad attribuire esclusivamente a sé.
Nell’ Agamennone di Eschilo, per esempio, quando Cassandra, principessa troiana e dunque  straniera per i Greci, viene portata in presenza di Clitennestra, il corifeo dice: “Costei come una rondine conosce solo la lingua barbara”; di lei si dice che “pare una bestia selvaggia” ;  alla voce di Cassandra, insomma, non si riconoscono caratteristiche  umane; viene in mente il passo di  Erodoto per il quale i Pigmei  stridevano come  pipistrelli.

Non mancano nel mondo antico voci illuminate, come Eratostene citato da Strabone, che critica esplicitamente la divisione del mondo in Greci e Barbari, dicendo che il consiglio dato ad Alessandro Magno di trattare sempre da amici i Greci e da nemici i Barbari è un consiglio sbagliato, bisogna invece introdurre un criterio morale, della virtù e del vizio: gli uomini non sono Greci o Barbari ma buoni o cattivi.
E Strabone, citando Eratostene,  a sua volta introduce un rovesciamento importante: i Barbari non sanno parlare greco, ma anche i Greci non sanno parlare la lingua dei Barbari, quindi anche i Greci per gli altri sono “barbari”, ciascuno è barbaro per qualcun altro. Per Strabone  dunque anche i Greci “balbettano”, sono “balbuzienti” per i barbari.
Sembrerebbe esserci una connessione fra incapacità linguistica e incapacità culturale; ci potrebbero essere tanti modi per individuare una inferiorità (intelligenza, aspetto fisico, colore della pelle, ecc) ma qui si sceglie l’inferiorità linguistica, è come se una forma di disabilità venisse utilizzata per  definire un’ inferiorità etnica o culturale: il barbaro è inferiore perché balbetta, è disabile nel linguaggio, è questo il livello di partenza della barbarie.
Questo suggerisce una riflessione, fa pensare a un legame fra “barbarie” e disabilità: entrambi non fanno parte della città, Aristotele e Platone dicono espressamente che nella polis non c’è posto per la disabilità, fisica o mentale, come non c’è posto per gli stranieri. Due categorie di esclusi, dunque, i disabili e gli stranieri, legati  da una sottile solidarietà.
Nel film di Virzì, Ovo sodo,  quando finisce il film, e scorrono le scene di come la storia dei protagonisti continui, si vede il fratello disabile del protagonista che  parla con senegalesi e albanesi, e il protagonista dice: ”Noi si è sempre pensato fosse un disabile, sarà mica uno straniero?” E’ una battuta ma è profonda. Bettini è convinto che anche oggi, riducendo le distanze linguistiche si favorirebbe  l’integrazione.

In Latino non c’è l’equivalente di barbarus, cioè non esiste una parola spregiativa per indicare lo straniero. In latino lo straniero è peregrinus, colui che viaggia; externus, “quello di fuori”, riprendendo l’opposizione: della casa/esterno; alienus, uno che appartiene ad un altro, un modo interessante di definire lo straniero perché si riconosce comunque un’appartenenza a un altro; hostis, che sottolinea una parità di diritti col popolo romano.
Però anche i Romani assumono barbarus, come per esempio quando chiamano se stessi “barbari” vedendosi con gli occhi dei Greci: è quanto accade nel Miles gloriosus di Plauto, che è ambientata in Grecia (e dunque si prende il punto di vista dei Greci), e in cui si legge: “Ho sentito che c’è un poeta barbaro e che l’hanno incatenato …”
Catone dice che i Greci hanno deciso di ammazzare tutti i barbari (dunque anche i Romani); Cicerone nella Pro Ligario, chiama  Greci i Greci e Barbari tutti gli altri. In questo c’è tutta l’ambivalenza di Roma fra l’accettazione di  essere considerati barbari e il rifiuto. Si poneva così la necessità di una terza via, una sorta di identità di mezzo, né Barbari né Greci, come quella trovata da Virgilio: i Romani erano Troiani, a metà fra due mondi.

Anche gli scrittori cristiani usano “barbarus”, per i non cristiani. San Paolo diceva: “Da quando siamo rigenerati in Cristo, non siamo più né schiavo né libero, né giudeo né greco, né uomo né donna …”: purtroppo non è vero, e una nuova civiltà, quella cristiana, introduce una nuova inciviltà, su base religiosa, quella dei non cristiani.
La nozione di barbaro nell’Europa moderna è stata ampiamente accolta ma anche avversata: il vescovo spagnolo Bartolomeo de Las Casas è stato un grande critico del concetto di barbaro e ha difeso l'umanità dei nativi americani contro la tesi della loro irrazionalità e bestialità avanzata da altri suoi contemporanei, arrivando a dire che gli Spagnoli sono disumani e barbari, non gli indios; Montaigne, nel saggio sullo straniero e la barbarie, evidenzia la reversibilità del concetto di barbaro: anche noi siamo Altri, barbari, per loro.
Tutte argomentazioni, queste, riprese da Todorov nel saggio La paura dei Barbari (2009).



 Mario Lentano  Il gigante sciocco: etnografia selvaggia dei Romani (Sintesi e adattamento)
Barbaro è un termine attestato già in Omero, ma non può riferirsi ai Troiani: troppi sono gli aspetti culturali (gli dei, l’ospitalità, l’onore guerriero, i riti funebri, ecc) che essi condividono coi Greci.
In realtà i Greci hanno iniziato a categorizzare l’Altro come qualcosa di molto se non completamente diverso da sé solo dopo le guerre persiane, quando la cultura greca si è interrogata sul motivo della vittoria sui Persiani, più potenti e più numerosi.
Se negli scritti ippocratici (Arie acque e luoghi,16) clima e  istituzioni politiche individuano le cause della superiorità greca sui Persiani, secondo Aristotele (Politica, 1327b 20 ss) la stirpe greca, trovandosi in mezzo a due  eccessi, rappresentati per un verso  dai popoli nordici –valorosi ma poco intelligenti- e per l’altro dagli asiatici -molto intelligenti ma imbelli-  grazie alla mesotes è sia intelligente che bellicosa,  in grado di organizzarsi politicamente, e dominare l’umanità se trova una forma unitaria di organizzazione statale.
Anche per Posidonio in Vitruvio (De Architectura, VI,1,3 ss. e 10 ss.) il medium è virtuoso, ma questa volta è rappresentato  dall’Italia, dai Romani che, non a caso, sono i padroni del mondo, in perfetto equilibrio fra gli opposti eccessi dei popoli del nord (biondi, dai corpi giganteschi, ricchi di energia guerriera ma dall’intelligenza lenta ) e del sud, quelli vicini all’equatore (piccoli, scuri di carnagione,  capelli crespi, occhi neri, sangue scarso; intelligenti ma poco energici nei combattimenti).
Si direbbe che il “centro” sia una categoria molto produttiva nell’etnografia,  del resto sappiamo che i Persiani stimavano i popoli in rapporto alla distanza dal centro e cioè da loro: più erano distanti meno erano stimabili.
Questo modello che prende in considerazione anche le caratteristiche fisiche dei popoli  si rivela molto funzionale proprio perché consente di “salvare i fenomeni” cioè di spiegare una serie di elementi che non sono semplicemente  di tipo comportamentale  ma che danno conto delle caratteristiche fisiche delle popolazioni. Sarà attivo anche in Polibio per spiegare la superiorità dei Romani, nel VI libro delle Storie.

Se per i Greci il totalmente altro da sé sono i Persiani, per i Romani a rappresentare l’alterità assoluta  sono i Galli: nella  cultura romana  l’immagine-tipo del guerriero gallico è il gigante sciocco, fisicamente imponente ma intellettualmente fragile, privo di disciplina, incline all’exploit individuale piuttosto che al gioco di squadra. Esso  viene esemplarmente tratteggiato nel celebre passo liviano (Ab Urbe condita, VII, 9-10) dello scontro fra il campione dei Galli e il romano Tito Manlio, il suo esatto opposto: potrebbe sembrare solo un passo eziologico per spiegare il cognomen dei Tarquini, ma in realtà può essere letto come un’applicazione ad un contesto reale delle categorie finora prese in esame.
Dunque l’Altro si presenta come colui che è da meno, ma è anche vero che a volte  nella cultura romana, in  Cesare e Tacito (Germania, 19) per esempio, si fa strada l’idea che invece sia migliore; chi è “civile” è corrotto: invece i Barbari, fuori dalla cultura e dalla civiltà, lontano da Roma, potevano rimanere in una condizione di purezza primigenia che ne faceva un modello di virtù etiche  e valore militare, anche più ammirevoli perché entrambi in declino presso i Romani.
Questo motivo, tipico del moralismo romano, torna ad essere funzionale presso quegli autori cristiani che si interrogano sul perché Dio abbia permesso che l’impero fosse conquistato dai Barbari: per Salviano, Dio ha visto nei Barbari una superiorità etica e di costumi che i pur cristianissimi romani non avevano, per questo ha consentito loro il dilagare nell’impero.
Anche il linguaggio dei barbari, sia pure in un ambito particolare come quello della magia, poteva essere considerato positivamente:  gli onomata barbarikà certo sono inintelligibili, ma proprio perché puro suono senza significato, sono ritenuti in grado di mettere in connessione con una realtà diversa, in una dimensione sovrumana.
In conclusione : abbiamo visto come i Greci e i Romani abbiano costruito l'immagine dell'Altro, ma dopo tanti secoli la prospettiva si è rovesciata, ora sono i Greci e i Romani ad essere gli Altri per noi, ed è bene che tali appaiano, perché le visioni continuiste, quelle fondate sulle “radici”, oltre ad essere storicamente false, sono anche fuorvianti, non ci danno motivazioni per studiare il mondo antico: se sono uguali a noi, che senso avrebbe studiare gli Antichi? Far capire che gli Antichi sono altro da noi, abituare a interpretare questa  alterità, diventa per i giovani una palestra di tolleranza, un esercizio di sano relativismo: chi si è abituato a cercare di capire chi fossero e cosa volessero  gli Antichi, troverà lo slancio per fare lo stesso con gli Altri del nostro tempo.


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