Se tradurre è sempre un po’ tradire, tutto si complica con i testi destinati
alla rappresentazione teatrale.
Far sì che tragedie e commedie
classiche siano pienamente fruibili dagli spettatori di oggi, non è facile: la
distanza culturale che ci separa dagli antichi rischia di rendere poco comprensibili le peculiarità culturali che caratterizzano quei testi, per non dire della
difficoltà di restituirne efficacemente la ricchezza espressiva e la
complessità concettuale. E per quanti sforzi si facciano, forzature
attualizzanti o oscurità anacronistiche sono sempre dietro l’angolo, tanto più che
con i drammi non c’è possibilità di avvalersi di note e commenti esplicativi.
Di questo e altro si è parlato alla presentazione della 54^ edizione
del Festival del Teatro Greco di
Siracusa, che si è tenuta martedì scorso, dalle ore 15.30, nell’Aula Magna dell’Ateneo
barese, e che ha visto la partecipazione dei componenti il Comitato scientifico
dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico -fra cui l’ingegner Pier Francesco Pinelli e il professor Luciano Canfora-, e i traduttori
dei tre drammi in cartellone quest’anno, i professori Federico Condello,
Giorgio Ieranò e Olimpia Imperio. All’iniziativa ha aderito e
dato il proprio patrocinio anche l'Associazione Italiana di Cultura Classica.
Dopo la relazione dell’ingegner Pinelli,
che ha trattato gli aspetti tecnici e
organizzativi del Festival di Siracusa, Condello
e Ieranò, curatori della traduzione,
rispettivamente, dell’Edipo a Colono e dell’Eracle, hanno messo in evidenza il senso di
inadeguatezza, l’impasse espressiva che spesso coglie il traduttore che si misura con i testi
tragici. In
assenza di un sublime di riferimento nella cultura attuale, egli può finire col
cercarlo in esperienze passate, anche di qualche secolo fa, cadendo nell’espressione
artificiosa, quasi librettistica; il
ricorso a una lingua letteraria datata ma inadeguata, ha il solo effetto di
svilire la polisemia lessicale, la grande varietà di registri e toni
linguistici, la forza espressiva dei drammi antichi.
Non è un problema nuovo: Eliot
in Euripide e il professor Murray
stroncò la traduzione di Gilbert Murray della
Medea di Euripide, proprio con la
motivazione dell’inadeguatezza della tradizione ottocentesca inglese a cui il
professore oxoniense si era ispirato: per Eliot c’era “bisogno di un occhio capace di vedere il passato al suo posto e con le
sue precise differenze dal presente, eppure vederlo così vivo da esserci
presente come il presente stesso. Questo è l’occhio creativo. ” Intento
magnifico, questo di Eliot, ma di difficilissima realizzazione.
La lingua non è però la sola difficoltà per chi si misura nell’ardua
impresa di tradurre i poeti tragici: anche l’idea di teatro che la tragedia
classica esprime è diversa, e per certi versi antitetica, rispetto alla concezione
moderna e contemporanea.
Quello che può accomunare noi postmoderni agli autori antichi è la riscrittura:
non dobbiamo dimenticare che anche i tragici, facendo riferimento ai miti, storie già note, in un certo senso li riscrivevano,
quasi come chi li traduce. Le traduzioni delle tragedie sono allora da
considerare riscritture di riscritture, che Euripide complica anche con frequenti variazioni sul mito, come avviene
nell’Eracle, con significative
ricadute sul significato del dramma e soprattutto sul protagonista.
La professoressa Imperio,
avendo premesso che la traduzione del testo comico è per la sua stessa natura
meno complessa di quella della tragedia, ha messo a fuoco alcune problematiche
che ha affrontato occupandosi dei Cavalieri di Aristofane, per
esempio come rendere il linguaggio osceno evitando la deriva del turpiloquio o
come mettere il pubblico di oggi in condizione di capire i riferimenti, politici
e non solo, presenti nel testo (cosa forse non del tutto agevole neanche per i contemporanei
del commediografo ateniese) senza il rischio di facili analogie con l’attualità
o di censure. Quanto poi alle metafore (nautiche, della falegnameria o
conceria, ecc) di cui è ricco il testo di Aristofane, renderle in modo calzante è stato impegnativo, come la
professoressa ha evidenziato efficacemente illustrando le motivazioni delle
scelte fatte in qualche passo di difficile resa.
L’intervento del prof. Canfora
ha preso le mosse da Il tiranno e il suo
pubblico, un bel libro di Diego
Lanza, autore – insieme all’amico Mario Vegetti, anch’egli scomparso di recente - anche de Il
suddito e la scienza. Entrambi gli scritti risalgono agli anni ’70, un
periodo diverso da quello attuale, in cui la coscienza civile era molto più
alta che oggi nel mondo degli studi, e gli intellettuali osavano “sporcarsi le
mani” con l’impegno politico.
Chi è il tiranno sulla scena?
Di questa figura così incombente del teatro tragico, gli spettatori
ateniesi, diversamente dai loro padri, non avevano esperienza diretta. Perché
allora portarlo in scena, perché schierarsi contro, se è una figura del
passato? La risposta a questa domanda potrebbe essere che il tiranno è il fondamento ideologico, in
negativo, della democrazia ateniese, la quale tende a porsi in contrapposizione
totale rispetto all’esperienza dei tiranni, ma che in realtà è essa stessa
prodotto dell’aristocrazia, come suggeriscono le fonti antiche ( Erodoto,
Tucidide, Platone , Aristotele, Plutarco. . .) interpellate da Canfora. Furono infatti alcune famiglie aristocratiche, una in particolare, a separarsi dalla famiglia
dominante del tiranno, a combatterlo chiedendo aiuto ai capofila
dell’aristocrazia e a liquidare, con le armi spartane, l’esperienza dei tiranni;
del resto non è un caso se Clistene, che passa per il fondatore della
democrazia ateniese, abbia ricoperto delle cariche pubbliche ai tempi di
Pisistrato.
Dunque la rappresentazione del tiranno
nel teatro ateniese è un’operazione ideologica, la costruzione di un mito negativo funzionale alla
rappresentazione di sé della democrazia.
Un altro punto su cui il professore si è soffermato, ri hiamando ancora l’opera di Lanza citata in precedenza, è la politicità – alta, diretta, esplicita- del teatro ateniese. Canfora ritiene
che tutto sia innervato di politicità, anche le forme espressive che ne
sembrano più lontane. E se “la politica è la forma più alta della vita morale”
(il professore ne è fieramente convinto), questo è particolarmente vero ad
Atene, dove il teatro è la forma più significativa, più impegnativa, più
rischiosa, della politica. Il teatro ateniese potrebbe dirsi il controcanto
dell’epitafio, (con il quale ogni anno il politico più in vista recitava l’elogio
della città e della sua costituzione), il luogo in cui non si celebrano ma piuttosto si
mettono in discussione i valori della città: è in questo senso che il teatro
ateniese è teatro politico. Come lo era, nel primo Novecento -ricorda il
Professore con la consueta capacità di connettere la sua vastissima cultura
contemporanea con l’approfondita conoscenza del mondo antico- il teatro della
repubblica di Weimar.
E’ stato un bel pomeriggio, ricco di stimoli, di piste di ricerca e, per
me, anche l’occasione di ritrovare, nel pubblico di tutte le età – da docenti
in pensione a giovanissimi studenti – che ha affollato la splendida Aula Magna
dell’Ateneo, qualche amica e perfino una compagna di studi universitari che non
vedevo da anni … fa un certo effetto.
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