PANDORA (1896) - JOHN WILLIAM WATERHOUSE |
Siccome le promesse vanno mantenute (o, se volete, dalle minacce si deve
sempre passare ai fatti, è una questione di serietà) riprendo il post precedente sull’ ospitalità e -come annunciato- mi dedico alla trattazione
del dono. E giacché mi trovo, vi dico
che non ho intenzione di farla finita. Il tema mi piace troppo e precipita nell’ attualità
che è una bellezza. Ma basta anticipazioni. 😀 Buona lettura.
Dunque, da quanto si è già
detto (vedi post del 15 maggio L’Ospitalità), lo straniero
è, al tempo stesso e indissolubilmente, ospite e nemico: non l’uno o l’altro, ma
l’uno e l’altro. Una volta riconosciuto
come hostis, non va trascurato il fatto che resta anche hospes; ma è bene non dimenticare di
riconoscere, nelle sembianze dell’hospes, colui che è anche hostis.
L’ambivalenza della nozione
di straniero e del termine che lo designa è condivisa dal mezzo fondamentale
con cui vengono sanciti i vincoli d’ospitalità: il dono.
Anche doron, dono, in significativa assonanza con dolon, inganno, è una parola dalla natura “anfibia” (come tante altre del lessico
greco-latino[1]):
un dono può rivelarsi un inganno; o meglio, qualsiasi dono è sempre,
intrinsecamente, anche un sottile inganno: arricchisce ma anche indebolisce
colui che lo riceve, costringe ad essere in debito, dona e insieme obbliga.
Significativo dell’ambiguità
del dono è il mito di Pandora, la prima donna, che pur dotata di bellezza,
grazia e altre doti, nascondeva un kyneon noon, un “animo di
cagna”: portatrice di doni (pan-dora=
tutti i doni), è anche colei che aprendo
il vaso donatole da Zeus, sparge sulla terra mali d’ogni sorta.
Insidioso è anche il dono
del Cavallo di Troia, il bellissimo cavallo di legno lasciato sulla spiaggia
dai Greci e che i Troiani, credendolo dono degli dei, trasportano dentro le
mura causando la loro rovina: al suo interno si nascondono i guerrieri che mettono
la città a ferro e fuoco.
Il Cavallo di Troia, il
vaso di Pandora, evidenziano in modo esemplare la natura ambigua del dono,
forse per questo sono diventati proverbiali, come il virgiliano timeo Danaos, ac dona ferentis (Eneide, II 49), pronunciato da Laocoonte
proprio nel tentativo di dissuadere i Troiani dall’accogliere il dono del
Cavallo.
Si è già detto che le caratteristiche
fondamentali della pratica del dono sono la reciprocità e l’equivalenza: ogni
dono comporta un controdono, di pari valore. Per questo motivo i doni si
scambiano fra pari, fra chi è in grado di contraccambiare col dovuto equilibrio
il dono ricevuto.
In questo contesto il dono
gratuito, quello che non prevede contraccambio,
è ritenuto pericoloso; questo tipo di dono non istituisce reciprocità, è asimmetrico e comporta conseguenze negative.
Il
primo mito che dimostra come i doni a senso unico siano funesti è quello di
Deianira, la protagonista della tragedia Trachinie
di Sofocle. Il centauro Nesso, colpito a morte da Eracle, in fin di vita dona
a Deianira, moglie dell’eroe, un poco del proprio sangue spacciandolo come filtro
d’amore. Quando Eracle ritorna dalla guerra portando con sé Iole -la giovane principessa
di cui si è innamorato- Deianira, con
l’intenzione di riconquistarlo, gli regala una veste intrisa del sangue di
Nesso. L'esito di questi doni, anomali perché asimmetrici, non può che
essere rovinoso: appena indossata la veste, Eracle muore fra atroci tormenti; Deianira
si suicida.
Il
dono dispari -e fatale- è presente anche nella Medea di Euripide. La maga, determinata a
vendicarsi della giovane che le ha portato via Giasone, fingendo di accettare rassegnata
l’abbandono del suo uomo, affida ai propri figli una veste da portare in dono
alla giovane rivale. Una volta indossata, la figlia di Creonte resterà uccisa e
con lei il padre, che aveva tentato di soccorrerla.
Un
dono senza controdono diventa -nel caso di Medea volontariamente- strumento di vendetta e morte.
Un
caso particolare è il dono d’Alcesti, l’enigmatica eroina dell’omonimo dramma
di Euripide. Per salvare dalla morte il marito Admeto, per garantire continuità
e benessere al suo regno e alla sua famiglia, ella accetta di scambiare la propria
vita con quella di lui, gli dà in dono la sua psyché: il dono, eccezionale perché non potrà mai avere un
controdono adeguato, è reso possibile dal fatto che le Moire, le dee del Destino, sono state
ingannate da Apollo. Ma non si scambia impunemente ciò che non può avere un
controscambio equivalente. Di questo dono anomalo le conseguenze negative sono
immediate: alla morte di Alcesti Admeto cade nella disperazione, e con lui i figli,
i servi, mentre anche i suoi rapporti col padre si incrinano irrimediabilmente.
Tutto l’oikos di Admeto è sul punto di andare in
rovina, ma in quel fitto intreccio di doni e controdoni che è l’Alcesti, anche Eracle fa la sua
parte, permettendo un insolito lieto fine. Grato
ad Admeto per la sua generosa, straordinaria ospitalità, Eracle ricambia con un dono altrettanto
straordinario: la vittoria sulla morte. E ingaggiato un duello con Thanatos (la Morte), gli strappa Alcesti
e la restituisce ad Admeto e alla vita.
[1] L'esempio forse più efficace è la parola pharmakon,
rimedio e veleno, indissolubilmente congiunti.
Umberto Curi, in Filosofia dello straniero, istituisce un’analogia fra xenos e pharmakon: “… come il pharmakon, anche lo straniero può esercitare la sua funzione, non in quanto si pretenda di isolare i suoi effetti “benefici” – quelli connessi con l’affermazione della nostra identità – da quelli maligni – quelli dipendenti dalla minaccia in lui incarnata – ma solo in quanto si colga l’indissolubilità di questi aspetti diversi"
Umberto Curi, in Filosofia dello straniero, istituisce un’analogia fra xenos e pharmakon: “… come il pharmakon, anche lo straniero può esercitare la sua funzione, non in quanto si pretenda di isolare i suoi effetti “benefici” – quelli connessi con l’affermazione della nostra identità – da quelli maligni – quelli dipendenti dalla minaccia in lui incarnata – ma solo in quanto si colga l’indissolubilità di questi aspetti diversi"
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