“Un
libro deve essere un'ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”,
scriveva Franz Kafka all’amico Oskar Pollak nel lontano
1903. In effetti capita a tutti, prima o poi, di imbattersi in libri come quelli
che si augurava Kafka, libri non facili né gradevoli, che però ti cambiano, modificano
radicalmente il tuo sguardo interiore. Non succede spesso, diciamo due, tre
volte, nella vita di un lettore.
Uno dei miei libri rompighiaccio è Al giardino ancora non
l’ho detto di Pia Pera, pubblicato nel 2016, lo stesso anno della
scomparsa dell’autrice. Per la me di allora è stato un incontro casuale e
benefico (non c’è solo la banalità del male ma anche la casualità del bene):
immergermi nel dolore di un’altra mi ha aiutata a delimitare il mio, a dargli
una qualità differente, ad accoglierlo senza troppa angoscia o paura ....
Per rompere il mare di
ghiaccio che è fuori di noi
ci stiamo ancora attrezzando.
Pia Pera, Al giardino ancora non l'ho detto, Ponte delle Grazie |
Qualche
giorno dopo l’assalto al Bataclan, Antoine Leiris pubblicò una lettera rivolta
agli autori della strage nella quale aveva perso la vita sua moglie. Colpiva,
in quel testo, la determinazione con cui si respingeva qualsiasi logica di
vendetta, la dignità, l’amore vivo che provenivano da un uomo colpito da una
tragedia crudele e assurda come quella: ammirevole dimostrazione che nella vita, al di là di
quel che ci capita, che può anche
essere ingiusto e fuori misura, quel che conta sono le risposte di cui siamo capaci.
Anche
il libro-testamento di Pia Pera, Al
giardino ancora non l’ho detto, è una risposta, esemplare per bellezza e profondità di sguardo, a cose che
prima o poi toccano a tutti: la malattia, il declino, la morte.
Pia
Pera è stata una donna dai molteplici interessi: narratrice, autrice di canzoni
e testi teatrali, traduttrice, ma anche creatrice di giardini originali e
insoliti, come quello da cui è circondata la casa in cui viveva, in Toscana; ed
è proprio da un giardino, quello della poesia di Emily Dickinson da cui è
tratto il titolo dell’opera, e intorno a un
giardino, quello in cui la scrittrice-giardiniera viveva immersa e di
cui si occupava con appassionata dedizione, che prende spunto e si muove questo
testo, in cui si intrecciano liberamente riflessioni sul senso della morte e
della vita, nutrite anche di incontri
e letture – tante, scavate e colte -, lucide
autoanalisi, bilanci mai definitivi, frammenti di piccoli eventi quotidiani e la registrazione dolorosa
della propria deriva fisica.
La
scrittrice, una donna attiva, orgogliosa della sua indipendenza, forse anche un
po’ aristocraticamente sprezzante, felice di tutto quello che fa, in primo
luogo la cura del giardino, viene d’un tratto messa di fronte all’evidenza di
una malattia progressiva, invalidante, mortale. Assediata da un nemico inesorabile,
che avanza lentamente e con spiazzanti accelerazioni, nel suo verde universo
ritagliato, Pia elabora la sua risposta.
E’ determinata a guarire ma se la morte sarà inevitabile vuole che la trovi viva e operosa: fa adattare la sua
casa e il giardino per muoversi e
lavorare il più a lungo possibile;
ricorre a medici e guaritori, anche a costo di sperimentare sulla sua pelle avidi
opportunismi, improbabili quanto inutili terapie: rimedi migliori saranno la dolcezza dell’amicizia, dei pochi ma buoni
che le sono rimasti accanto, la meditazione
e la spiritualità orientale, la bellezza della natura circostante e del
giardino che, colto e descritto nella mutevole, inesausta bellezza dei suoi
colori, profumi, suoni e perfino silenzi, vibrante di luce o immerso nelle
ombre, è il leitmotiv del libro e suo cuore poetico.
Quando l’incalzante perdita delle forze le impedisce
di prendersene cura, respingendola progressivamente ai suoi margini, il
giardino diventa un luogo pieno di vita in cui essere semplicemente accolti
come ospiti, specchio che riflette la
transitorietà della condizione della sua artefice o la totale immobilità
dell’ultima fase (“sono diventata una pianta bisognosa di cura” ),
corpo-giardino da curare e proteggere, scenario di “cicliche resurrezioni”
negate agli umani; o anche spazio contemplativo, luogo di ritiro attraverso cui
realizzare l’antica vocazione all’eremo.
Vivere
“nell’ora forse più bella, sospesa fra la luce e l’ombra” costringe Pia a
mettere in discussione scelte passate, ad aprire – per poi ricomporre – qualche vecchia ferita, a cedere
alla tentazione del rimpianto, a sentire lo sgomento della solitudine, la
comprensibile paura della morte .
Dense
sono le pagine su Dio, l’aldilà, il fine vita: troppo lucida per abbracciare
una fede definita o consolatoria, troppo razionale per riconoscere un’Eternità
che non sia quella “dell’attimo” , ma anche troppo spirituale per non aprirsi
alla dimensione religiosa, una religiosità quasi sincretica, dal buddhismo al
Vangelo, all’esacismo, accogliendo anche spunti del mito pagano.
Pia
indaga il mistero della sofferenza e della morte, lottando per non identificarsi con la sua malattia; rispetta la libertà di chi, sotto la
pressione di sofferenze insopportabili, sceglie di non prolungare la vita a
tutti i costi, ma dal suo punto di vista è sbagliato vivere per la morte: con questa bisogna avere solo quel tanto di
familiarità che consenta la concreta consapevolezza di far parte “del gran
fiume delle cose”, del moto incessante di aggregazione e disgregazione degli
elementi, di fioriture e sfioriture, senza consentire al grande Nulla di trionfare. Lasciare la vita è doloroso ma
anche su quella soglia non si deve rinunciare a sprigionare il “talento di
vivere”, a godere, finché è concesso, delle
cose relative della quotidianità: la gioia di una giornata al mare con gli
amici, una gradevole cena in compagnia, lo stupore per un fiore sbocciato a sorpresa nel giardino, la bellezza di Lucca
avvolta nel tramonto, l’impagabile presenza dell’amatissimo Macchia.
Ha
nostalgia di ciò che è andato senza ritorno ma prova stupore e gratitudine per
quanto ha acquisito: misurarsi con la sofferenza – la propria e quella degli
altri- le ha permesso di sperimentare un’inedita indulgenza, di disporsi con umiltà e
empatia verso chi è fragile; nell’impossibilità di essere efficiente e
indipendente come una volta, elogia la lentezza, si abbandona alla tenerezza
degli altri. Se la rifioritura fisica è impraticabile, quella interiore è una
certezza ed è così che si congeda, senza inutili orpelli, col cuore “colmo di
solo amore”.
Ho
sempre pensato che scrivere sia come togliersi i vestiti: vale anche di più per
un tema come questo , e di fronte al coraggio, alla sincerità e alla grazia con cui Pia Pera
abbandona il “pudore letterario”, non si può non rimanere ammirati. Bandita
ogni retorica consolatoria, senza superflui sentimentalismi, nelle sue pagine
tutto sgorga genuinamente umano: lucida fino ad apparire severa ma capace anche di ironia, forse la più grande
avversaria della morte.
Al giardino ancora non l’ho detto
è un libro che si ripone senza chiuderlo mai, rimanendo sottotraccia in
chi legge, con dolore e dolcezza struggenti, e che per la sofferta, poetica
consapevolezza che offre, sembra incarnare la frase di Etty Hillesum : “Tutte
le volte che mi mostrai pronta ad accettarle, le prove si cambiarono in bellezza”
Pia Pera con Macchia |
Commenti
Posta un commento