"Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando – per ragioni pratiche – è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera.“ —
Anna Maria Ortese, Corpo Celeste
Giorgio De Chirico, Il ritorno di Ulisse |
Nel libro VIII dell’Odissea Ulisse, in viaggio verso
Itaca, approda a Scheria, l’isola dei Feaci, popolo civile e ospitale
quant’altri mai. Ulisse è uno straniero, uno sconosciuto, ma Alcinoo, il re
dell’isola, ligio alla legge non scritta dell’ospitalità, lo accoglie
amichevolmente e convoca nella sua reggia tutti i principi feaci per un
banchetto in onore dell’ospite. Nel corso del banchetto Ulisse, di cui gli
ospiti ignorano ancora il nome, chiede all’aedo Demodoco di cantare un episodio
della guerra di Troia; Demodoco lo accontenta e, ispirato da Apollo, canta l’inganno
del cavallo di legno e la caduta di Troia. Alla rievocazione di fatti che lo hanno
visto protagonista, l’eroe si commuove, non riesce a trattenere le lacrime e
infine, svelata la sua identità, racconta per intero la sua avventurosa storia.
Ulisse ha bisogno delle parole di un poeta per ritrovare
il filo del racconto e svolgerlo ancora, con parole sue. Solo dopo può pensare
al futuro, riprendere il viaggio per ritrovare affetti e regalità perduti, fare
ritorno, insomma, alla vita di prima. Ma non si ritroverà uguale a prima: quando
torna ad Itaca, colui che di molti uomini ha visto le città e conosciuto la
mente, patendo fatiche e dolori sul mare, senza poter salvare dalla morte,
pur volendolo, i suoi compagni, non è lo stesso uomo che era partito, quel
percorso lo ha cambiato.
La consapevolezza del limite ha in sé una grande
energia, quella di trasformare e di trasformarci.
Si
potrebbe dire che in questi giorni della fase 2 siamo nella stessa
condizione di Ulisse: come l’eroe omerico, anche noi siamo stati trattenuti (e
lo siamo ancora, in forma attenuata), lontani dalla normalità della vita; la
nostra Calipso, la nostra Circe, si chiama Coronavirus (e non ci ama); ora si è
comprensibilmente impazienti di tornare alla vita di prima ma sarebbe anche più
giusto, in questi giorni che sembrano gli ultimi del tempo sospeso - tempo di vita e non necessariamente
sinonimo di “tempo perduto”– interrogarsi sul senso di quel che è accaduto, pensare
al dopo, che sicuramente sarà diverso, come la storia d’Ulisse ci
insegna. Più che resistere attorno a un’idea di ripartenza, più che affrettare
un ritorno a un prima che non ci vedrà uguali a prima, dovremmo
chiederci se e come saremo in grado di riplasmare, in meglio, le nostre
esistenze. Come sarà il dopo? Saranno più marcate le disuguaglianze? Diventeremo
più indifferenti e spietati con chi è più esposto o saremo in grado di guardare
all’altro con occhi più umani? Come ne uscirà il nostro senso – già incerto – di
comunità? Si riuscirà a mettere in atto comportamenti più rispettosi e
responsabili verso la Natura? L’emergenza avrà l’effetto di mescolare le carte
o il gioco riprenderà come prima, peggio di prima?
Negli
ultimi tempi, attraverso gli schermi dei computer, spesso siamo stati raggiunti
da rassegne e maratone di letture, proposte da personalità della cultura, dello
spettacolo, o da gente comune; per superare lo spaesamento, l’angoscia in cui
la nostra quotidianità era stata gettata da un evento che ci sorprendeva fragili
e impotenti, ci si è rivolti alla grande letteratura, forse per trovare risposte ma
soprattutto per trovare ascolto. Come Ulisse ci siamo affidati alle
parole dei poeti, alle voci del passato che sanno parlare al presente, una
pausa di meditazione per trovare, attraverso la parola, lo slancio per
immaginare e fare il futuro.
Anch’io in questi giorni ho costruito un piccolo
percorso di letture “del cuore”. Mi sono naturalmente rivolta alle voci
dell’antichità classica, per me dimensione di verità e senso; non echi lontani di
un passato da ammirare e tuttavia inerte rispetto al presente ma, al contrario,
voci che risuonano parole vive, parlanti, di cui oggi, in cerca di senso e
consapevolezza, di riferimenti su cui reinventare le nostre esistenze, si
avverte più forte il bisogno.
Ogni lettura ruota intorno a una parola fra quelle
che l’emergenza ha reso più attuali.
Comincio con un passo dell’Odissea che mi è
particolarmente caro e una parola bellissima, la sine qua non: fiducia.
Questo post è stato ispirato anche dagli interventi, condivisi in rete, della professoressa Donatella Puliga (docente all'Università di Siena - Associazione Antropologia e Mondo Antico) sulla Didattica delle emozioni, rivolti ai docenti nei giorni dell'emergenza.
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