“…
Un giorno, questo è certo, / non ci saremo più, / e chi potrà ricordarsi /
del nostro piccolo mondo insieme? / così caldo, eppure così freddo, / così
leggero, eppure così difficile / da levarsi di dosso? /Nessuno.
Solo io e te, ora, possiamo ricordare, /dopo di noi, nessuno. E sarà / come se non fossimo mai stati.”
Questi versi di Neruda mi sono tornati
in mente più volte leggendo Due vite di Emanuele Trevi, vincitore del
Premio Strega 2021, un libro che sembra scritto per evitare la voragine del non
essere mai stati, per sottrarre alle ombre divoratrici del tempo e
dell’oblio il ricordo dell’amicizia di una vita, quella che ha legato l’autore a
Pia Pera e a Rocco Carbone, scrittori di talento, entrambi scomparsi
prematuramente qualche anno fa. Pia e Rocco, due personalità libere e
originali, sensibilità screziate d’inquietudini, incrinate inesorabilmente dalla
malattia.
Due
vite: o forse tre, anche quella dell’autore, con i suoi gusti, le sue angosce,
la raffinata cultura letteraria, la sua idea di letteratura e, al fondo di
tutto, l’esercizio dell’ arte impossibile di capire la vita.
Non si può dire che si tratti di una
biografia perché “la vita fisica, fatta di sangue e respiro” a Trevi non
interessa; a lui interessa l’altra, “quella che si svolge nella mente di chi ci
ha voluto bene”. Ed ecco che la scrittura si fa ri-membranza, non un
semplice narrare richiamando alla memoria fatti, eventi, persone, ma un
ricordare col cuore, in modo così profondo e sentito da ricomporre, con cura
paziente, i disiecta membra della vita trascorsa, metterli al riparo dalla
“grande festa del Nulla”, consegnarli alla realtà superiore della letteratura e
– credo davvero di non esagerare - della poesia.
O del mito: di questo libro, che mi è
piaciuto tantissimo, amo soprattutto l’idea di scrittura che racchiude, che io
direi “alchemica”, magica, innervata di miti. E tanti ne ho intravisti in
filigrana: quello di Iside, che raccoglie le membra sparse di Osiride per
riportarlo in vita, o di Orfeo, che con nuovo disincanto consegna all’eternità
chi ha amato grazie al potere delle parole. Ed è quasi impossibile non pensare
alla nekyia di Odisseo, o a Gilgamesh che, sconfitto nel suo sogno d’immortalità
e di eterna giovinezza, di fronte al muro di gomma del Nulla permane, scopre
che la sola immortalità concessa è la memoria affidata alla scrittura, la sua
storia incisa sulla pietra.
La scrittura di Trevi non è filo che
tesse tele narrative ma quello che riunisce i vivi ai morti per dare “aiuto,
attenzione, memoria”, raccontare e compensare chi non c’è più, per chiudere
cerchi e, infine, ritrovare e ritrovarsi interi.
Due vite: un corpo a corpo con la perdita, con
l’insondabilità di ogni destino. Un ricamo intorno a uno strappo irrimediabile,
un giardino - curato e casuale insieme, di quelli che piacevano a Pia- ai bordi dell’abisso.
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